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17 Oct 18

Intervista a Fabrizio Zucca, uno dei fondatori di Strategia & Sviluppo Consultants, società che supporta le PMI italiane nei processi di innovazione e internazionalizzazione.

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Per le aziende che vogliono crescere uno dei terreni più complessi su cui muoversi è quello finanziario. Quali sono le possibili strategie?

In realtà il piano finanziario è conseguente a un piano strategico. Il primo passo per crescere è quello di avere una strategia che si basa sulla consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza e soprattutto dei driver fondamentali di creazione del valore. L’aspetto finanziario è sicuramente importante nella fase attuativa della strategia e ne fa anche parte nel momento in cui per la realizzazione delle attività è necessario individuare anche le fonti di finanziamento. In altre parole, prima si deve capire da dove si parte, dove si vuole arrivare e se questo percorso crea valore per l’impresa. La strategia va poi tradotta in azioni che necessitano di risorse per essere realizzate: la ricerca e la corretta individuazione di queste risorse (che non sono solo quelle finanziarie) spesso determinano il successo o l’insuccesso delle strategie di crescita.

Parte della vostra attività di consulenza è dedicata al supporto operativo alle imprese nelle sviluppo di nuove idee e rilancio dell’attività. Quali sono le sfide che l'attuale congiuntura finanziaria pone alle aziende?

Rispetto al passato credo che oggi l’incertezza sia la sfida più critica. Se si guarda il mondo sia dal punto di vista della sua estensione geografica e temporale sia sotto il profilo tecnologico la cosa che risalta in modo più evidente è l’incertezza di quello che potrà essere lo scenario futuro. Il problema è che per poter sviluppare una strategia rivolta al futuro è necessario sviluppare uno scenario su cui modellare delle previsioni. L’incertezza dello scenario implica un rischio crescente che deve essere individuato e, fin dove possibile, misurato e gestito. L’azienda si deve dotare di un sistema di monitoraggio dello scenario economico che le consenta il livello massimo di resilienza.

In passato le problematiche di governance riguardavano principalmente le grosse aziende.

Nel contesto economico attuale, quanto è importante anche per le PMI individuare modelli di governance che consentano di proporsi ai potenziali investitori con maggiore credibilità e trasparenza?

La governance è fondamentale nel processo di crescita di un’azienda. Più l’azienda si espone a contesti che vanno al di la della sua gestione abituale, come può essere la localizzazione in un mercato estero, più è necessario avere sotto controllo tutti i processi aziendali. Inoltre per tornare anche al punto precedente, la gestione dell’incertezza e del rischio e quindi la capacità di reazione in tempi rapidi passano attraverso una governance ben disegnata. Non va dimenticato che il processo di internazionalizzazione e quindi la capacità di lavorare in mercati che hanno leggi e usi diversi è caratterizzato da una forte esposizione a tematiche di compliance locale che ancora una volta rendono necessario che ci sia una governence ben salda e informata. La connessione con il reperimento delle risorse e quindi con potenziali investitori è immediato. Non c’è dubbio che a parità di altre caratteristiche un’azienda che è in grado di mostrare un controllo intelligente e trasparente dei suoi processi è vincente. Di solito, inoltre, una buona governance è importante per sviluppare la capacità di formalizzare gli obiettivi aziendali e di verificare quando, dove e in che modo possano essere raggiunti. Normalmente questo non dispiace a chi investe.

In un contesto sempre più competitivo è importante che ruolo assume l'innovazione? Cosa può fare una realtà più piccola e con meno budget per la ricerca per restare a concorrenziale?

L’innovazione è importante, ma forse oggi quando si parla di innovazione si ha in mente esclusivamente la dimensione della ricerca, dello sviluppo scientifico e delle società Hi Tech. Innovare non è solo questo, si può fare innovazione in un processo o nel modo in cui si affronta il mercato o in un modello nuovo. Se non fosse così la gran parte delle aziende che operano in mercati maturi sarebbero condannate a non essere più innovative. Oggi qualsiasi impresa che non guarda al di là della sua quotidianità è destinata prima o poi a essere sorpassata e marginalizzata fino alla chiusura. In molte situazioni non è il budget per la ricerca che fa la differenza ma la capacità di osservare e interpretare i cambiamenti. Spesso ci si concentra troppo sul quotidiano e su ciò che ci sta immediatamente intorno e questo alla lunga impoverisce la capacità di innovazione che si nutre di nuovi stimoli. Credo che per queste attività il budget debba essere trovato, soprattutto in termini di tempo, formazione e confronto.

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In un periodo di crisi come questo l’export rappresenta uno dei principali fattori di successo per le PMI. Come valuta attualmente la presenza delle piccole e medie imprese made in Italy sui mercati esteri?

I dati ci dicono che il nostro export gode di ottima salute. Guardando più da vicino però ci si rende conto che spesso la capacità delle imprese di radicarsi nei vari mercati non è ancora abbastanza forte. Spesso si è ancora legati al modello fiera-ordine- agente-distributore, un modello che sta segnando il passo e che espone fortemente i valori dell’export alle congiunture dei paesi di esportazione. Il vero salto è costituito dalla capacità di localizzarsi in un territorio. A questo proposito, va anche detto che ci sono molti modi e gradazioni di localizzazioni che vanno da una semplice filiale commerciale a un impianto produttivo. A volte anche tramite terzi (agenti o distributori) si può essere “localizzati” se si gestiscono in casa le attività strategiche di quel mercato. Capita molto spesso invece che la presenza sul mercato estero sia completamente in mano al soggetto terzo, questo rende il sistema debole.

Quali sono in questo momento i settori commerciali e merceologici con maggiore possibilità di conquistare il mercato internazionale?

La globalizzazione ha creato opportunità di sviluppo internazionale anche per attività che sembrava non potessero uscire nemmeno dal territorio metropolitano. Quando ero in università si diceva che attività come il parrucchiere erano espressamente domestiche. Oggi vediamo che la capacità di capitalizzare su un brand permette di sviluppare anche queste attività in ambito internazionale. Questo per dire che oggi la possibilità di svilupparsi a livello internazionale c’è per quasi ogni azienda. Se fate uno spaccato delle nostre PMI anche all’interno dello stesso settore vi rendete conto che, rispetto all’internazionalizzazione, imprese che alla base sono molto simili hanno avuto sviluppi molto diversi. Alcune si sono aperte in modo significativo altre al contrario non sono state in grado di estendere la loro operatività al di fuori di un ambito territoriale ristretto.

Quali sono secondo lei le principali barriere che ancora impediscono a molte PMI di aprirsi all’estero?

La barriera più importante è quella culturale. Ci sono due aspetti che spesso frenano la capacità di proiezione e secondo me entrambe sono legati a fattori storici e culturali anche in parte legati alla velocità di cambiamento a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni.

Il primo aspetto è legato alla scarsa attitudine alla collaborazione e alla mania del controllo. Molte aziende, troppo piccole per essere veramente incisive in un mercato estero, potrebbero esserselo creando delle aggregazioni, ma spesso i tentativi di riunire più imprenditori di filiera - e quindi non in competizione tra loro - si infrangono contro il muro della diffidenza. Spesso l’imprenditore non coltiva alleanze e non si imbarca in attività che non riesce a controllare a pieno direttamente. Tipica è l’affermazione “mi piacerebbe svilupparmi in quel mercato ma non ho nessuno di fiducia da mandarci”.

Il secondo aspetto è legato al cambiamento di geografie. Fino a 15 anni fa il mondo era tendenzialmente composto da Europa Occidentale e Nord America. Quando si pensava all’estero si pensava alla Germania, la Francia, chi andava più in là aveva in mente gli USA o magari dopo il collasso dell’Unione Sovietica, la Russia. Oggi il mercato Europeo va considerato come “domestico”, i veri mercati da conquistare non sono più in Europa. Nel 2030 l’Europa raggiungerà a mala pena il 4% della popolazione mondiale con il 56% posizionato in Asia e il 23% in Africa e lì si trovano i mercati che possono fare la differenza per il nostro export. Su quei mercati il vecchio modello competitivo basato sulla svalutazione e sulle vendite in fiera non è molto efficace, serve capacità di analisi di sviluppare alleanze costruttive e di localizzare la presenza anche comprendendo appieno la cultura locale.

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